Chop Suey è il primo singolo estratto da Toxicity, secondo album in studio (pubblicato il 6 novembre del 2001) della metal band statunitense System of a Down.
Brano che (al pari di tanti altri) consacra il gruppo di Serj Tankian, ha ottenuto la candidatura ai Grammy Awards 2002 nella categoria Best Metal Performance (poi vinta dai Tool). Due sono gli elementi caratteristici del sesto brano di Toxiciy, attraverso i quali è semplice giustificare il successo mediatico dello stesso che, oltre alle quasi 550 milioni di visualizzazioni su Youtube, vanta la vendita di numerosi dischi d’argento e d’oro (anche in Italia) nonchè la settima posizione negli Stati Uniti: il testo e il video ufficiale del brano. Per quanto riguarda quest’ultimo, citando la regia di Marcos Siega, non si può far altro che riconoscere quale sia il lavoro che porta alla realizzazione di un videoclip che ha dell’unico. Protagonista è, infatti, l’intreccio sovrapposto di due concerti nei quali il brano veniva eseguito, legati attraverso il filo comune dell’esibizione e della bandiera armena. Armenia che è, non a caso, paese d’origine dello stesso Tankian, nonchè di Daron Malakian, chitarrista del gruppo. Addirittura, in alcune scene, si vede i membri della band mangiare il Chop Suey, un tipico piatto cinese americano che dà il nome al pezzo stesso: è la musica che parla di se stessa, che mostra se stessa e lo fa in diverse e intrecciate accezioni. La musica che evade da quegli schemi formali e si mostra nella sua mera e pura essenza, con il contatto diretto tra artisti e pubblico. Con il pubblico, tra l’altro, che non è sfondo del video, bensì co-protagonista. Il video si apre e si chiude con l’inquadratura di spettatori, messi da sfondo rispetto al primo piano del “System of a Down”. Un pubblico concepito nel suo essere frenetico e sfrenato, nel ripetere e cantare insieme a Tankian, nell’urlare e saltare. Una rappresentazione reale, concreta, che corrisponde al vero.
Nel testo, invece, si coglie una sfumatura del tutto differente: quasi più mistica e suggestiva. Testo che è stato, nel corso del tempo, più volte oggetto di parodia e presa in giro per la velocità con la quale viene eseguito, contiene – quasi antitetiche – frasi semplici e comuni (“Grab a brush and put a little makeup”, “Hide the scars to fade away the shakeup “) alternate a frasi di accezione religiosa e biblica (“Why have you forsaken me?”) fino al culminare nel verso finale, emblematico, che riporta l’ultima frase di Gesù (“I, cry, when angels deserve to die”) prima di morire.
E’ evidente come il brano non sia semplice come la velocità delle parole e del suono vuol far credere. L’alternarsi caotico delle voci, l’enigma di alcune frasi, la contrapposizione tra il sacro e il profano sono tutti elementi di sicuro intriganti che caratterizzano un brano che, ricordiamolo, all’inizio doveva pur chiamarsi “Suicide”. Una lunga indagine, quasi introspettiva, quasi intima, di se stessi e dell’animo. Una giustificazione, forse, dell’atto più estremo della vita umana.
di Bruno Santini (Nefele)