Oggi nel 2003 ci lasciava Giorgio Gaber, all’anagrafe Giorgio Gaberscik. Un cantautore poliedrico, un artista versatile e istrionico che ha con le sue parole descritto l’Italia in maniera assolutamente vera e puntuale. Una verve ironica ed una satira mai volgare hanno caratterizzato la produzione di questo grande artista milanese. Con il suo amico di una vita Sandro Luporini, ha fin da subito creato “per divertimento” testi per cui “il mondo” non era ancora pronto. Quando i tempi furono maturi, Luporini e Gaber diedero vita invece al Teatro Canzone. Tale genere è una contaminazione di teatro, musica e poesia, in cui al centro di tutto c’è semplicemente lui, Gaber e una sedia. Il Signor G – il personaggio di Gaber ma non solo – ci ha restituito un quadro a volte drammatico, altre umoristico, in generale sempre profondamente veritiero di ciò che siamo.
La G di Giorgio Gaber che sta per gente
Come detto, Gaber si trovava nei suoi spettacoli teatrali da solo su un palco di fronte ad un pubblico. Un pubblico che sapeva conquistare, che – come brillantemente ha sempre fatto Dario Fo – faceva divertire, ridere per poi portarlo alla riflessione. E al pari dei giullari che il Premio Nobel ha ripreso, dileggiava il potere, demistificava la realtà e la società. Ciò senza mai ergersi a giudice perfetto, no, il Signor G è prima di tutto imperfetto. Questo personaggio ha una G che non reca mai, graficamente, un punto finale poiché non è un’abbreviazione di Giorgio o di Gaber, non solo. La G sta per Gente. Il quadro che ci offre il cantautore è quello dell’uomo comune, fragile, a volte stolto, impaurito senza motivo o a ragion veduta. Un uomo che si guarda allo specchio con le sue mutande pervinca, medita il suicidio, ma poi realizza che c’è una fine per tutto e non è detto sia sempre la morte.
La libertà, l’appartenenza, gli ideali
Conosciamo tutti la sua Destra-Sinistra, che Luporini racconta di aver composto insieme a lui durante un dialogo. Erano soliti lavorare così: delle conversazioni, normalissime, come si fanno tra amici, dalle quali veniva poi l’ispirazione per comporre. I luoghi comuni di destra e sinistra si fondono in un cavallo di battaglia immortale, che denuncia la mancanza di ideali i quali vanno in secondo piano oramai. Eppure libertà è partecipazione, dobbiamo partecipare alla vita non solo politica, alla vita umana, degli uomini. Dovremmo appartenere, dovremmo essere un gruppo, non una massa senza più l’individuo (cosa che Gaber teme e denuncia, ad esempio ne Il conformista), ma un individuo che lotta per essere davvero umano. Essere umani significa non temere l’altro, come ci racconta il brillante monologo La paura, ma pensare empaticamente.
La generazione che ha perso
Nell’ultimo periodo della sua produzione, pensiamo a La razza in estinzione, Gaber ci ha regalato da uomo ormai anziano e sicuramente se possibile anche più maturo di prima, una drammatica cronaca di ciò che stavamo diventando. Profetiche risultano le sue parole che descrivono una gioventù incapace di realizzare una rivoluzione. La sua generazione, quella passata, quella a cui appartiene Gaber, invece aveva lottato per realizzare qualcosa, anche con una certa presunzione nel credere di poter cambiare il mondo. Adesso che cosa ci rimane? Gaber non ha mai preteso di avere la verità in tasca, non lo pretende nessuna persona di grande intelletto come lo erano lui e Luporini. Tuttavia, ci ha fatto riflettere al punto da oggi poter ragionare su chi siamo, su dove andiamo e su cosa possiamo cercare di essere.
La voglia di andare la voglia di reagire
con quanto coraggio, con quanta paura,
con quanto coraggio, con quanta paura.
Rivoluzione, rivoluzione
la voglia di fare e di ricominciare
con tutta la rabbia, con tutto l’amore.