Nel 1984 Bruce Springsteen pubblicò quello che, ben più di un album, sarebbe diventato il simulacro di un’intera generazione. Settimo lavoro in studio per The Boss, Born in the USA fu il suo più grande successo commerciale con oltre 30 milioni di copie vendute solo negli States. Riprendendosi dalla precedente fatica discografica – Nebraska del 1982 – in cui aveva cantato senza la E Street Band, Springsteen decise di fare un cambiamento radicale con il nuovo disco. Da atmosfere malinconiche, chiuse e pessimiste si passò a ritmi ballabili, orecchiabili e solari, tanto che tutti i 7 singoli estratti entrarono nella Top 10 di Billboard. Nella seconda metà degli anni ’80, grazie a Born in the USA, Bruce Springsteen divenne una delle rock star più affermate e influenti del panorama musicale. In occasione del 35esimo anniversario dalla sua pubblicazione, andiamo alla scoperta dei segreti dietro a questo travolgente successo discografico.
Il disastro sfiorato
Sebbene Born in the USA sia stato rilasciato nel 1984, le registrazioni della E Street Band sul primo lato del disco iniziano già due anni prima. Springsteen voleva però aggiungervi anche delle tracce acustiche che aveva scritto da solo durante il processo creativo per l’album. Non contento del risultato raggiunto con Born in the USA, fece confluire i propri testi in Nebraska – pubblicato appunto nel 1982 – accantonando temporaneamente il secondo lavoro. Il disco fu un flop, vendette pochissimo e non venne mai passato dalle radio. Quando la E Street Band tornò in studio, nel 1983, per completare Born in the USA, Bruce Springsteen era sommerso da aspettative e pressioni per far uscire un lavoro migliore del precedente.
Il nervosismo da tour
Le pressioni e le frustrazioni per Born in the USA continuano anche dopo la pubblicazione quando, nel 1985, Bruce Springsteen parte in tour per la promozione dell’album. In quel periodo The Boss si era da poco sposato con Julianne Phillips e la coppia era costantemente sotto i riflettori. Questa attenzione mediatica, unita al nervosismo e la fatica che un tour comporta, misero a dura prova i nervi del cantante. Emblematico l’episodio in cui Springsteen scagliò la propria chitarra da un lato all’altro del camerino dopo aver visto una foto della propria camera da letto su un giornale. Toby Scott – ingegnere del suono del cantante per 40 anni – raccontò al Post che quella sera, portando quella rabbia sul palco, il pubblico ne venne come influenzato, ballando così forte che lo stadio sembrava muoversi.
Bruce Springsteen e Little Seven
Lo stretto legame tra Bruce Springsteen e la E Street Band si è sempre retto anche sulla forte amicizia tra The Boss e il chitarrista Steve Van Zandt, detto Little Seven. Con lui, Springsteen suonava dai tardi anni ’60 e condivideva un rapporto di mutuo rispetto e fratellanza. Tuttavia, dopo che Little Seven si unì alla Band nel 1975, sentì che avrebbe dovuto avere più riconoscimento. Con il tempo era diventato co-produttore, confidente e spalla di Springsteen. Nel 1983, al momento di rimettersi al lavoro su Born in te USA, Van Zandt abbandonò il progetto. Bisognerà attendere il 1999 per vederlo tornare definitivamente nella formazione.
Dancing in the Dark e Michael Jackson
Cosa c’entra Michael Jackson con Bruce Springsteen? Presto detto. Durante la composizione di Born in the USA, il manager Landau sentiva l’assenza di una hit, la canzone che avrebbe rappresentato l’intero album. “Abbiamo discusso […] – raccontò poi The Boss a riguardo – quella notte ho scritto Dancing in the Dark, la canzone sulla mia alienazione”. Quello che forse non tutti sanno è che la maggiore influenza al brano arrivò direttamente da Beat it di Michael Jackson.