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Pink Floyd, la storia del magico Live at Pompeii del 1971

Torniamo al 1971, a quei quattro giorni di Ottobre – dal 4 al 7 – che diventarono leggenda. Ai suggestivi e labirintici passaggi sotterranei dell’anfiteatro di Pompei. In quell’anno Adrian Maben – regista ormai legato nell’immaginario collettivo ai Pink Floyd e alla città campana – ebbe l’idea di realizzare opere in cui musica e arte fossero unite. Il rock e l’architettura, la formazione di Roger Waters e David Gilmour accanto a Magritte, De Chirico. La band inizialmente rifiutò il progetto. Ma nell’estate del 1971, visitando al tramonto le rovine in cerca del passaporto che credeva di aver perduto, Maben si innamorò del fascino e delle atmosfere di Pompei. Decise che avrebbe dovuto riprendere i Pink Floyd suonare in quel luogo ad ogni costo. Da quell’idea e quella fantasia nascerà Live at Pompeii, il documentario sul concerto più suggestivo e iconico della storia della musica.

Adrian Maben, apertura del sito archeologico e arrivo dei Pink Floyd

Le rovine dell’anfiteatro romano di Pompei non erano accessibili al pubblico. Vennero aperte, in via eccezionale, per le riprese che Adrian Maben aveva in mente. Grazie alla sua amicizia con Ugo Carputi dell’Università di Napoli, riuscì infatti a ottenere il permesso di effettuare sei giorni di riprese nel sito archeologico. Maben si era immaginato i Pink Floyd nell’anfiteatro – durante la sua visita di Pompei al crepuscolo – suonare davanti ad una platea vuota. La formazione di David Gilmour e Roger Waters in mezzo alle rovine, memori di un passato suggestivo e affascinante, e le prime note che si elevano al cielo. Un progetto che si distanziava nettamente dagli altri film-concerto realizzati in precedenza: basti solo pensare a Woodstock – tre giorni di pace, amore e musica. 

Alla fine i Pink Floyd accettarono l’idea di Maben ma furono irremovibili sul fatto che dovesse essere suonata live, senza playback. Tutta la loro attrezzatura, compreso un impianto per la registrazione a 24 tracce, vennero portati sul luogo. Il primo inconveniente fu la scoperta che l’elettricità non sarebbe stata sufficiente per l’alimentazione. Dal municipio locale venne steso un cavo lunghissimo che, percorrendo le strade della città campana, arrivò direttamente all’anfiteatro. Adrian Maben racconterà in seguito che, durante il lavoro, molte bobine andarono perse. Motivo per cui, nella registrazione di One of These Days si vedono quasi esclusivamente inquadrature di Nick Mason.

Live at Pompeii permette allo spettatore di vivere, da una posizione privilegiata, l’esecuzione di tre brani dei Pink Floyd. Echoes, One of These Days, A Saucerful of Secrets. Ciascun brano venne ripreso e registrato autonomamente, poi montato assieme agli altri. Le riprese all’anfiteatro di Pompei, a causa delle tempistiche ristrette, furono effettuate in soli quattro giorni. Così che il regista, preoccupato per la scarsità del materiale vi integrò altre scene, girate a Parigi dal 13 al 20 Dicembre 1971. Per preservare la coerenza del film, le scene girate in Francia furono integrate con spezzoni ripresi a Pozzuoli e immagini di repertorio della Soprintendenza italiana. Si possono distinguere le sequenze girate a Parigi da quelle girate in Italia perchè Wright è senza barba!

Pink Floyd a Pompei, un capitolo immortale della musica

Da quel concerto a porte chiuse nel 1971 i Pink Floyd e Pompei sono entrati nella coscienza collettiva come un’unica cosa, una fantasia suggestiva che – nonostante le difficoltà tecniche – ha segnato per sempre il mondo della musica. Pink Floyd Live at Pompeii, sebbene ultimato da Maben nel 1972, vide la luce solo due anni dopo nel 1974. Fu accolto dal pubblico e dalla critica a braccia aperte, dando inizio ad una vera e propria venerazione della band britannica. Le rovine dell’anfiteatro romano sono diventate meta di pellegrinaggio per tutti gli appassionati di musica, desiderosi di immortalare la suggestiva e leggendaria location di quel concerto.

Live at Pompeii è la dimostrazione che quando la musica ha qualcosa da dire non ha bisogno di molti accessori. Nessuna scenografia esagerata o il clamore del pubblico, nessun effetto roboante o luci artificiali. Solo quattro musicisti in mezzo ad un groviglio di cavi, circondati da casse a amplificatori. Le rovine di un luogo riportato in vita grazie alla musica, a delle note che si infiltrano e percorrono veloci le gallerie labirintiche sotto di lui. L’eco del passato cristallizza anche i Pink Floyd in un momento destinato ad essere ricordato per sempre.

 

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