Oggi Highway to Hell, uno degli album più celebri degli AC/DC, compie 38 anni.
Il 27 Luglio del 1979 veniva pubblicato, infatti, dalla Atlantic Records uno degli album che sicuramente ha meglio influenzato la storia del rock. L’ultimo album di Bon Scott, che morirà l’anno dopo, ma soprattutto album che per celebrità e impatto sociale e musicale è secondo solo a Back in Black, del 1980. Disco che, non a caso, figura tra i 500 migliori della storia della musica (200° nella classifica della rivista Rolling Stone).
Ma entriamo nel merito: l’album inizia con la title track, una potentissima ed esplosiva Highway to Hell che conduce gli ascoltatori su quell’“autostrada per l’inferno” che sarà l’intero album. Dello stesso avviso, forse ancora più spumeggiante è la seconda traccia: Girls Got Rhythm, che procede sull’incalzare delle impazzite chitarre degli Young, e sul «No doubt about it, can’t live without it» reiterato di Scott. Dopo un inizio così aggressivo si calmeranno sicuramente nella terza traccia, penserebbe chiunque al primo ascolto, ma così non è: Walk all over you non è sicuramente eccelsa come le altre tracce, forse le stesse tendono ad oscurarla, ma il suo impatto è fondamentale, riuscendo ad essere il perfetto tramite per la successiva Touch too much. Nulla da dire, nulla da porre contro e tanto meno nulla da contestare: canzone perfetta, riff memorabile, voce di Scott fantastica e, a nostro avviso, canzone migliore dell’album. Una canzone che riesce ad incarnare perfettamente lo spirito del rock ‘n’ rock, che si trova nel posto giusto al momento giusto. Si passa a Beating around the Bush, una canzone che potremmo definire controversa: il riff esplosivo caratterizzante gli altri pezzi è ben mantenuto, l’impatto con la canzone è diverso, quasi fosse ambiguo, isterico, quasi a voler essere uno sfogo. 3.55 di chitarra che, diciamocelo, fa un po’ quello che vuole. Da qui a Shot down in Flames è un attimo: il ritmo sembra stabilizzarsi, il ritornello è impeccabile e forse questo riesce a salvare il pezzo da un eventuale baratro a cui poteva essere destinato. Dello stesso avviso è la successiva Get it Hot, che con la stessa schiettezza precedentemente utilizzata possiamo definire la peggiore dell’album. Poca originalità, nessuna nota veramente di spicco, ma pezzo che rende, inevitabilmente, l’album quello che è. If you want blood (You’ve got it) è la terzultima traccia dell’album, con cui dobbiamo ripeterci: così come Shot down in flames è un pezzo che viene portato in auge dal ritornello, che bene sa sfruttare il fattore “chitarra elettrica” ma che, diciamocelo, se confrontato alle canzoni storiche di quest’album non riesce a spiccare. Premio per l’originalità è Love Hungry Man, traccia che ha l’arduo compito di essere la penultima: lo sappiamo tutti, essere l’ultima canzone ha il vantaggio (e la difficoltà, anche) di dover chiudere un intero album; ma una penultima traccia deve approntare l’ascoltatore alla fine, deve avere un giusto collante che leghi con la precedente e non deve essere per nulla banale. Di quest’avviso è Love Hungry Man, una splendida ballata, suonata e cantata nel migliore dei modi, che ci porta alla fine. Una fine lenta, studiata e portata avanti 6 minuti: Night Prowler è, quasi, la metafora della miccia di una dinamite che, dopo aver imperversato scoppiando per lungo tempo, si spegne a poco a poco, nel clamore generale.